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direttore Antonio De Cristofaro

Rivolta carcere minorile di Airola, visita del vescovo don Mimmo Battaglia

Scritto da il 7 settembre 2016 alle 18:41 e archiviato sotto la voce Sociale, Territorio. Qualsiasi risposta puo´ essere seguita tramite RSS 2.0. Puoi rispondere o tracciare questa voce

‘Sento il desiderio di esprimere la mia più profonda vicinanza umana e di padre alle persone coinvolte nei gravi fatti dell’IPM di Airola, al personale penitenziario, in particolar modo a chi è rimasto ferito negli scontri, ma anche ai ragazzi, sia a quelli che all’interno del carcere sono stati a loro volta vittime di gesti e dinamiche decise da altri, sia a quelli che pur nel modo peggiore e privo di rispetto verso se stessi e gli altri, esprimono comunque un loro malessere. Un malessere di cui spesso tendiamo, come donne e uomini liberi, a dimenticarci. Le carceri sono per noi il luogo dell’oblio, il cassetto nascosto in cui riporre ciò che non vogliamo vedere’.

E’ quanto scrive in una nota don Mimmo Battaglia, vescovo della Diocesi di Cerreto Sannita-Telese-Sant’Agata de’ Goti.

‘Nessun rispetto, invece, e nessuna solidarietà per le mafie e la cultura mafiosa che provano ad incarnare la loro spirale di morte anche nelle vite, nelle scelte e nella dignità dei più giovani, cercando adesione e manovalanza anche nelle carceri.

Tuttavia anche chi sbaglia resta uomo! Resta ragazzo! È difficile per noi ammettere che chi si macchia di certe colpe gravi sia in tutto e per tutto nostro simile. Eppure se diminuiamo il livello di umanità del colpevole introduciamo una discriminazione che già in partenza nega la giustizia. Certamente l’errore deturpa la personalità dell’individuo, ma non la distrugge, non la nega. L’obiettivo, come afferma la nostra carta costituzionale e ancor più le specifici legislazioni minorili, è l’educazione, non la pena in sé.

Ma siamo veramente capaci di pensare il colpevole come persona da rispettare, promuovere ed educare? Tenere una persona imprigionata significa letteralmente tenerla in cattività. Non c’è positività, non c’è il buono possibile nell’uomo in catene, c’è la sua mortificazione e semmai una spinta ad essere peggiore.

Impedire alla giustizia di diventare vendetta è la vera sfida a cui tutti, e il sistema penitenziario in particolare, siamo chiamati. “Nessuno tocchi Caino” per noi è un monito, o ancora più, un imperativo.

Sappiamo tutti che la situazione penitenziaria è ormai al tracollo, sovraffollamento e condizioni interne insostenibili, sia per quanto riguarda la vita dei reclusi che per il lavoro degli operatori e degli agenti. Specie dal momento che anche un sistema importante come quello carcerario è a sua volta prigioniero di logiche politiche di stampo mercantile, orientate al budget e al risparmio delle risorse, soprattutto di quelle destinabili all’umano.

 

È necessario, invece, cambiare la cultura della pena investendo in educazione, risorse ed energie: fu proprio il cardinale Martini a dirci che non ci si può limitare a pensare a pene alternative, ma è necessario immaginare alternative alle pene. 

E ciò sarà possibile soltanto se non ci limitiamo a pensare alle pene come semplice e, più o meno, grave sanzione, ma come reale possibilità di riscatto sociale per recuperare il senso di umanità perduto e offeso. Non possiamo rassegnarci al male come qualcosa che si identifica con la vita dell’uomo che l’ha commesso. Un uomo non coincide mai con i suoi errori. Ne sono testimoni le tante donne e i tanti uomini che, nei nostri percorsi comunitari, sono riusciti a ripercorrere la propria vita al contrario, riscattandosi da quegli errori, imparando a perdonarsi e a chiedere continuamente e umilmente perdono, mettendosi in gioco e oggi, spendendosi anche per gli altri. Ma per fare ciò è necessario che accanto a quelle donne e a quegli uomini ci sia accanto qualcuno che raccolga quelle lacrime e condivida quel dolore. Questo significa che siamo chiamati a lavorare anche nelle storie più scomode e più difficili. Perché, come dice padre Turoldo, “Ogni uomo fa parte della storia: non c’è un bene di cui ognuno non sia partecipe, come non c’è un male di cui ognuno non sia in qualche modo direttamente o indirettamente responsabile”.

Per tutto ciò confermo la mia decisione di fare il mio ingresso in diocesi, il prossimo 2 ottobre, proprio a partire dall’IPM, augurandomi che per il mio ingresso non venga abbellito nulla della verità di un luogo e di un sistema a cui occorrono anni di umanità, solidarietà e alto senso della giustizia. Ho deciso di fare il mio ingresso a partire da Airola non per compiere un gesto simbolico, ma come presenza concreta della vicinanza della Chiesa e di questa concreta Chiesa di Cerreto Sannita-Telese-Sant’Agata de’ Goti alle storie di dolore, di disagio, di errori e, insieme, di speranza. E questa chiesa vuole e deve essere presente lì, dove c’è ogni forma di disagio per provare a trasformare ogni disagio in opportunità’.

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